Home

liberismo al rovescio

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva
 
Governi protezionisti con le banche, liberisti con gli operai
 
 
Lo sciovinismo economico nasce dall'atteggiamento ambiguo e ipocrita di governi e intellettuali
di Carlo Lottieri

Certo fa un po’ sorridere la levata di scudi generale contro i lavoratori britannici. Riuniti a Davos, i maggiori esponenti della politica internazionale hanno espresso unanime contrarietà dinanzi alle agitazioni dei sindacati del Regno Unito, furiosi perché un’azienda siciliana ha vinto un’importante commessa della Total, “sottraendo” lavoro agli operai inglesi.

La sensazione è che si sia di fronte al classico bue che dà del cornuto all’asino. Perché se è vero che la battaglia intrapresa dalle trade union d’oltre Manica è sbagliata, non può essere il laburista Gordon Brown o qualche altro leader occidentale ad esprimere tale giudizio. Da tempo, infatti, Londra fa parte di quell’insieme di Paesi che stanno intervenendo massicciamente “a difesa” dell’economia nazionale: contro ogni elementare logica liberale.
Sono infatti le classi politiche politicamente corrette, oggi scandalizzate di fronte al preteso “razzismo” dei lavoratori in sciopero, che hanno aperto la strada a tutto ciò. Per quale ragione, ad esempio, il governo belga nei mesi scorsi ha salvato una propria banca in difficoltà? Ma se si sposa lo sciovinismo economico non lo si può fare a corrente alternata: aiutando le imprese di grandi dimensioni la cui sede sta a Madrid e Parigi, e non con quella working class che parla cockney e che oggi protesta con veemenza di fronte all’arrivo di quanti che le appaiono come i discendenti dei Normanni che già una volta li hanno invasi.

Brown vorrebbe ora impartire lezioni ai propri lavoratori e pretenderebbe di insegnare il libero mercato a quei disoccupati (o timorosi di diventarlo) che sfilano in corteo. Mostrò però una diversa prontezza quando si trattava di salvare i centri finanziari della City: dalla Northern Bank in giù. E l’inquilino di Downing Street non è certo il solo ad avere abbracciato le logiche interventiste.
L’attuale presidente degli Stati Uniti, ad esempio, ha condotto una campagna elettorale intrisa di retorica ultra-nazionalistica e schierata contro i prodotti asiatici, i quali sottrarrebbero opportunità alle imprese americane. Quindi ha sostenuto il piano Paulsen (varato da Bush) a sostegno delle banche e, infine, sta predisponendo un colossale intervento per aiutare Detroit e le case automobilistiche Usa.
Ma ciò che ha deciso Obama assomiglia a quanto si sta facendo in Europa, dove Angela Merkel ha stanziato oltre 50 miliardi di euro, mentre qualcosa di simile hanno fatto Nicolas Sarkozy in Francia e José Luis Zapatero in Spagna. In questo quadro appare del tutto anomala, per nostra fortuna, la situazione italiana, dato che il ministro Giulio Tremonti – che fa ricorso in continuazione ad una retorica assai avversa al capitalismo – va conducendo una politica economica piuttosto prudente, perfino sparagnina, preoccupata di evitare il dissesto dei conti pubblici.

Nemmeno a Bruxelles non possono comunque mettersi in cattedra, dato che – come negli Stati Uniti – sono schierati a protezione di un sistema agricolo basato su dazi e sussidi che tiene alti i prezzi, frena l’ammodernamento del settore primario, causa gravi danni ai Paesi del Terzo Mondo (impossibilitati a esportare grano o riso). Per giunta nessuno ha scordato in che modo i politici europei nel loro insieme hanno seppellito il decreto Bolkestein, che si proponeva di liberalizzare il mercato del lavoro. Ma se era tanto “sociale” opporsi all’idraulico polacco (come sostenne tutta la gauche caviar parigina), per quale motivo starebbero sbagliando i poveri operai del Lincolnshire?
Se si vuole abbracciare l’economia liberale ci vuole un minimo di coerenza. Iniziando, ad esempio, a smetterla di dar fede alle teorie di quanti esaltano le esportazioni sulle importazioni e per questo vorrebbe sempre e solo una bilancia commerciale in attivo. Ma bisogna anche rinunciare alla credenza secondo cui sarebbero sempre i consumi, e mai il risparmio e l’accumulo di capitale, a far crescere l’economia. Educati al keynesismo da tanti discorsi che vanno per la maggiore, gli inglesi temono che i lavoratori siciliani spenderanno da noi quanto guadagneranno nel Regno Unito: e vedono in ciò un danno alla loro economia.

In realtà, il nazionalismo economico (una dottrina che fu formulata per la prima volta nell’età dell’assolutismo) è indifendibile da ogni punto di vista: sia giuridico che economico. Sul piano dei diritti, una società liberale esige che ogni impresa possa rivolgersi a chi vuole: e se a Grimsby la Total ha deciso di puntare su un’azienda italiana, deve poterlo fare.
Questa difesa delle ragioni di principio, per giunta, si sposa con ciò che insegna l’analisi economica nel momento in cui rileva (fin dai tempi, quanto meno, di David Ricardo) che l’apertura delle frontiere favorisce una crescita complessiva del sistema produttivo e della qualità della vita. Se entrambi i soggetti di ogni scambio vi prendono parte perché ritengono di migliorare la loro condizione, quando si inibisce o limita la libera contrattazione si finisce per inaridire una delle sorgenti fondamentali della ricchezza. Questo è quanto è successo nei decenni scorsi in Argentina, che ha progressivamente distrutto la propria economia adottando una strategia tutta difensiva.

I sindacalisti inglesi hanno torto, quindi, e sono assolutamente indifendibili. Ma forse dovremmo mettere sul banco degli imputati anche chi, e da anni, dà loro lezioni moralmente ed economicamente tanto discutibili.

Da Il Giornale, 3 febbraio 2009