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Tagli alla ciltura

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Chi protesta contro i tagli della cultura dovrebbe invece pensare come renderla redditizia

Le agitazioni di questi giorni contro i tagli allo spettacolo sottendono un argomento tanto fragile quanto poco discusso: e cioè che vi sarebbero alcune realtà culturali (tra cui l'opera) che possono vivere solo grazie al denaro dei contribuenti. Cantanti, registi, musicisti e direttori sostengono - anche senza presentare le cose in tal modo - di poter sopravvivere solo se qualcun altro destina loro una parte del proprio stipendio.
Eppure non c'è ragione di credere che la musica debba essere considerata un'attività parassitaria, bisognosa di essere sussidiata. È vero che da circa mezzo secolo, soprattutto dopo alcuni scritti di William Baumol, non mancano economisti persuasi che la limitata crescita di produttività conosciuta negli ultimi secoli da alcune attività (suonare un quartetto, mettere in scena un'opera, e via dicendo) dovrebbe imporre il ricorso ai fondi pubblici. Ma non è così: non lo è oggi come non lo era in passato. Una dei più grandi capolavori musicali della storia, quel Flauto magico che Mozart portò a termine poche settimane prima di morire, fu scritto grazie a una commissione giunta al musicista salisburghese dal Theater auf der Wieden, diretto da quel Emanuel Schikaneder che sarà anche autore del libretto. Quella musica fu realizzata per una sala della periferia di Vienna e per un pubblico assai diverso da quello aristocratico, a cui Mozart solitamente destinava le sue creazioni in lingua italiana. La vicenda del principe Tamino nasce da un contratto capitalistico tra un impresario e un artista, si dirige a un pubblico borghese e popolare e anche per questo è in lingua tedesca.
Quello di Mozart però non è un caso isolato: nel suo insieme, la grande stagione dell'opera italiana moderna (da Donizetti a Rossini, da Verdi a Puccini) vide protagonisti musicisti che erano liberi professionisti e che anche per questo facevano il possibile per soddisfare il loro pubblico. Questo non comportò uno scadimento della qualità, e anzi in qualche caso obbligò taluni a innovare il proprio lessico. Quando a partire dagli anni Settanta del diciannovesimo secolo la musica wagneriana inizia ad essere eseguita e apprezzata anche in Italia, Verdi studia le partiture del maestro tedesco ed è da quegli sforzi che emergerà la scrittura - deltutto originale - del Falstaff. L'esigenza di non perdere i contatti con il pubblico l'aiuta insomma a progredire.
Negli Stati Uniti dei nostri giorni il ruolo dei privati resta molto più significativo di quanto non sia da noi, e questo aiuta a spiegare perché in quel Paese la musica gode di una salute assai migliore. Non solo chi conosce la vita di uno dei più straordinari geni del Novecento, Dulce Ellington, ha ben presente quale funzione giocò per anni il suo impresario, Irving Mills, ma anche oggi è difficile pensare al mondo musicale americano contemporaneo senza considerare il ruolo degli sponsor, delle aziende discografiche, delle università e delle scuole (spesso private), degli organizzatori di concerti ed eventi.
Per salvare la musica non c'è bisogno che operai e impiegati paghino il biglietto alla «bella società» milanese. Per chi protestava prima della Valchiria, in fondo, dovrebbe essere una buona notizia.

Da Il Giornale, 9 dicembre 2010