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Invece che tassare tutti e aiutare alcuni, bisogna procedere a una riduzione delle imposte sul settore produttivo che conduca alla fine di ogni aiuto di Stato
Il dibattito sulla proposta di riformare il fisco rappresenta una buona occasione per l'Italia. Ma è indispensabile che vi sia concretezza e determinazione, e che non si rinviino quelle soluzioni che, invece, sono davvero urgenti se si vuole favorire la ripresa. Sullo sfondo della discussione c'è il contrasto tra due esigenze egualmente legittime: la prima, interpretata da Silvio Berlusconi, punta essenzialmente a ridurre il gravame fiscale, anche per dare risposte all'elettorato, da tempo in attesa che si realizzi la promessa di «Meno tasse per tutti»; la seconda, difesa soprattutto dal ministro del Tesoro, punta l'accento sulla necessità di salvare i conti pubblici. Ma non si tratta di posizioni inconciliabili. Se non si tenessero in considerazione le buone ragioni di Tremonti, infatti, il Paese vedrebbe esplodere il debito e aumentare gli interessi dei titoli di Stato. Per giunta, questo porterebbe - come in Grecia a giudizi negativi da parte delle agenzie di rating, con la conseguenza che per piazzare i Bot in scadenza bisognerebbe offrire interessi maggiori, entrando in una spirale perversa. Molti sottolineano che una riduzione delle aliquote non comporta minori entrate, perché tasse inferiori possono stimolare l'economia e quindi condurre ad una crescita della base imponibile.

Il ragionamento è corretto, ma bisogna comunque agire pure su altri fronti, soprattutto se si intende incidere sulla fiscalità fin dal 2010. Una prima e indispensabile scelta che può agevolare il varo di un'Irpef a due aliquote (al 23 e al 33 per cento) è l'avvio di un'ampia privatizzazione del settore pubblico. Se quanto resta in mano pubblica di Eni, Enel, Finmeccanica, Cassa depositi e prestiti, Ferrovie dello Stato, Poste Italiane ecc. fosse privatizzato, si potrebbero usare tali entrate straordinarie proprio per ridurre il debito e, di conseguenza, eliminare una parte delle imposte che oggi servono a pagare gli interessi. In secondo luogo, la riduzione della pressione fiscale sulle imprese - a partire dall'Irap - va accompagnata da una progressiva eliminazione di sussidi e finanziamenti. Invece che tassare tutti e aiutare alcuni (spesso scelti in modo discrezionale), bisogna procedere a una riduzione delle imposte sul settore produttivo che conduca alla fine di ogni aiuto di Stato. Se anche sul piano contabile per l'Erario non dovesse mutare nulla (pareggiando la riduzione delle entrate tributarie con la cancellazione delle sovvenzioni), si otterrebbe comunque il risultato di far sì che i soldi restino a chi ha prodotto ricchezza, e che gli apparati politicoburocratici vedano contrarsi la propria capacità di intermediazione.

È poi urgente procedere lungo la strada di un federalismo fiscale davvero competitivo. Tutto dipende dai decreti attuativi della Calderoli. Bisogna infatti che, in ottemperanza al dettato costituzionale, si diano più competenze a Regioni ed enti locali, garantendo loro piena autonomia nel definire l'entità del prelievo. Ciò innescherebbe una positiva concorrenza tra Regioni più esose e meno esose, tra aree con buoni o pessimi servizi: a partire da qui, però, chiunque sarebbe indotto a dare il meglio di sé, al fine di attirare investimenti e capitali. Gli interventi su sprechi, inefficienze e spese inutili verrebbero di conseguenza. È necessario, infine, mandare un segnale positivo ad investitori e agenzie di rating, accogliendo la richiesta dell'Unione europea e parificando l'età pensionabile di maschi e femmine. Perché ridurre le imposte è possibile, senza dubbio, ma solo se si ha il coraggio di realizzare quelle minime riforme che sono necessarie a rimettere in sesto i fondamentali della nostra economia.

Da Liberal, 13 agosto 2010