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patrimoniale

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Non è una reale soluzione contro il debito pubblico

Di patrimoniale, si è parlato di nuovo venerdì, in una riunione organizzata dalla fondazione Riformismo e libertà, aperta e ispirata da un ricca relazione di Francesco Forte. Forte ha analizzato le tre versioni della patrimoniale in circolazione: quella di Amato, quella di Veltroni, e quella di Pellegrino Capaldo, da molti punti di vista la più astuta ma anche la più preoccupante, dal momento che sostanzialmente metterebbe il patrimonio immobiliare degli italiani a garanzia del debito pubblico.
A monte di questo dibattito, c'è la surreale giustapposizione fra debito pubblico e debiti privati degli individui, che da un annetto in qua vengono accomunati nella discussione politica, come se i debiti che ciascuno di noi contrae per sé, facendo leva sulle proprie ambizioni e sulle proprie prospettive, fossero davvero parenti di quelli che altri, cioè il ceto politico, ha contratto per tutti noi. Di questa "ben trovata" confusione, costruita ad arte da alcuni consiglieri del principe, si è nutrita la discussione sulla patrimoniale - tant'è che si è inventata un'espressione paradossale come "privatizzazione del debito pubblico".
Per "privatizzare il debito pubblico" bisognerebbe trasferire sulle spalle dei contribuenti da 560 a 1.100 miliardi di euro a seconda della proposta (pari a 30-60 punti percentuali di debito pubblico) nell'arco di tre anni, cioè 186-374 miliardi di euro all'anno, pari al 23-45 per cento di tutte le entrate pubbliche stimate per il 2011. Questa sarebbe la vera "frustata" per l'economia italiana: una frustata letale. Altri hanno già sottolineato come la patrimoniale sarebbe una imposta "iniqua". In molti casi essa colpirebbe patrimoni illiquidi (l'82 per cento degli italiani sono proprietari di case, il mattone è la principale forma di risparmio) costringendo gli italiani a vendere o indebitarsi. Come sappiamo solo il 2 per cento più ricco della popolazione dal punto di vista del reddito dichiara più di 70.000 euro e potrebbe permettersi di sostenere l'imposta; dal punto di vista del patrimonio, il 10 per cento più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a circa 500.000 euro; quindi l'obiettivo di 186-374 miliardi di euro all'anno potrebbe essere centrato solo imponendo un'aliquota estremamente alta su un ristretto sottogruppo della popolazione, oppure un'aliquota comunque alta su una platea inclusiva dei contribuenti con redditi medi o addirittura medio-bassi.
Per carità, si può indulgere nella fantasia di una patrimoniale "egualitaria", che finalmente costringe a pagare gli odiosi "super-ricchi". Sandro Brusco su noisefromamerika.com ha dimostrato con grande efficacia come essa andrebbe a colpire famiglie "normalissime" da ogni punto di vista, due (medi) stipendi in due, che hanno risparmiato «in media 10.400 euro l'anno per quarant'anni».
Dal punto di vista politico, vampirizzare queste persone sarebbe un suicidio (tant'è che la patrimoniale è il manifesto di un governo di grande coalizione, di "emergenza nazionale", non di una possibile maggioranza alternativa). Dal punto di vista dell'economia del paese, questo trasferimento di risorse dal settore privato al settore pubblico ridurrebbe le prospettive per la crescita economica, implicherebbe un aumento senza precedenti della pressione fiscale, disincentiverebbe ulteriormente gli investimenti diretti esteri, intaccherebbe pesantemente il risparmio degli italiani.
Tutto questo, perché? Perché la classe politica possa tornare a spendere e, nel lungo periodo, a indebitarsi. La patrimoniale serve infatti, se serve, non ad abbattere il debito - ma a fare in modo che sia possibile procrastinare ancora una volta quella radicale ristrutturazione dello Stato italiano che da anni, inutilmente, ci attendiamo.
La patrimoniale ridurrebbe lo stock di debito ma non il flusso di spesa che va ad alimentarlo di anno in anno. Non sarebbe il grande scudo contro il debito gigantesco che ci sovrasta, quanto piuttosto un assegno in bianco firmato alla classe politica, che tornerebbe a fare quel che sempre ha fatto e che meglio sa fare. Usare la spesa pubblica per comprare consenso.
Il problema del debito è reale e drammatico. Sul sito dell'Istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it), c'è un "orologio del debito" che aggiorna i visitatori, in tempo reale, sul ritmo di crescita del nostro debito. I valori sono tarati sui dati della Banca d'Italia, e rivisti una volta al mese. Tra gennaio e dicembre 2010 il debito pubblico è aumentato di 52 miliardi di euro, più di 4,4 miliardi al mese, 145 milioni al giorno, 6 milioni di euro all'ora, 101.122 euro al minuto. Guardare l'orologio che corre mette ansia. Vedere che anche il valore pro-capite del debito va inesorabilmente ad aumentare pure.
Ma non si risolve il problema del debito se non se ne estirpano le cause. Le cause sono le politiche economiche dissennate che ci portiamo dietro dalla Prima Repubblica, e che nella Seconda non abbiamo potuto perseguire con la stessa suicida pervicacia perché ce l'ha impedito proprio lui: il debito.
Potrebbe essere un circolo virtuoso. Per ridurre il debito, bisogna tornare a crescere e abbassare le spese. Per abbassare le spese, bisogna privatizzare ed esternalizzare alcune funzioni che lo Stato ha impropriamente preso per sé: e questo a sua volta ha effetti positivi per la crescita. Che rende possibile "rendere i nostri debiti". Questa sarebbe una prospettiva, non facile ma seria, da presentare agli italiani. Peccato che non abbiamo un solo leader politico che possa farlo, con un minimo di credibilità.

Da Il Riformista, 20 febbraio 2011