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La lezione del Giappone – di Gerardo Coco

 

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Il 2003 è cominciato davvero male. Il nuovo primo ministro del Giappone Shinzo Abe ha annunciato al mondo la sua ricetta per rilanciare il paese e innalzarne lo standard di vita: svalutare lo yen. Alla grande, naturalmente e attraverso un’aggressiva politica monetaria. La notizia è importante perché, siccome nel mondo tout se tient, la decisione si ripercuoterà soprattutto sui paesi più fragili in questo momento, Europa e Stati Uniti. Le svalutazioni, infatti, equivalgono a misure protezionistiche che portano sempre a ritorsioni, del tipo di quelle che, è opportuno ricordarlo, peggiorarono la Grande Depressione.

Ma limitiamoci per ora a valutare gli effetti dell’iniziativa di Abe, vero e proprio tecnocrate kamikaze, sul suo paese. Dopo oltre 20 anni di recessione il ministro pensa di creare sviluppo usando il trucco della svalutazione monetaria. La parola stessa “svalutazione” ha un già di per sé un significato negativo ed è in contrasto con la parola sviluppo. Svalutare significa infatti ridurre di valore. Sviluppo economico significa, invece, creare valore. Ora come è possibile creare valore “svalutando”? Lo dice il ragionamento stesso, diceva un comico. Non è logicamente possibile creare sviluppo con la svalutazione. Già altre volte su questo blog abbiamo confutato la tesi del binomio svalutazione-ripresa, sostenuta anche da economisti di fama (Krugman e Roubini) ed è il caso di ritornare a respingerla soprattutto a beneficio del profano cui può sembrare allettante.

La domanda di esportazioni per quanto intensa, non può, in sé stessa, generare alcuna crescita economica. Lo sviluppo è un processo di formazione di capitale cioè di rinuncia al consumo e alla spesa corrente in vista di un maggior consumo e spesa futuri. Ciò che è valido per un individuo e valido per un’intera nazione. Coloro che affermano il contrario assumono implicitamente che l’aumento delle esportazioni equivalga ad un aumento del risparmio nazionale e quindi ad un aumento dello stock di capitale. La svalutazione ufficiale, cioè pianificata dal governo, comporta il trasferimento di risorse economiche dalla produzione interna a quella esterna a beneficio dei paesi partner importatori. La svalutazione abbassa le ragioni di scambio (il rapporto tra il valore delle esportazioni e quello delle importazioni) e questo significa che il paese esportatore dovrà esportare di più per ottenere lo stesso ammontare di importazioni. Il che equivale a dire produrre di più per essere pagati di meno. O, per dirla ancora in modo diverso, il presunto aumento di competitività si risolve, per il paese esportatore, in minori unità di valore di import per unità di valore di export. Questo non significa alzare lo standard di vita, ma abbassarlo. Infatti la svalutazione corrisponde a un trasferimento di ricchezza a favore dei partner importatori pagato interamente dal resto della società del paese esportatore che dovrà pagare prezzi di importazione più alti. Svalutare significa ridurre il potere di acquisto della valuta e dunque l’unica ragione per cui gli esportatori aumentano le vendite è perché i prezzi dei prodotti si abbassano. Ma si abbassano non a motivo di una maggior efficienza produttiva ma perché gli esportatori beneficiano di un trasferimento di ricchezza. La svalutazione equivale a un vero e proprio sussidio all’esportazione da parte dei governi e come tutti i sussidi provoca redistribuzioni e distorsioni nell’apparato produttivo che si risolvono, alla fine, in minore competitività. E’ chiaro?

Inoltre poiché nel mondo l’inflazione è già entrata in circolo, nel caso del Giappone questa politica sarà ancora più dannosa perché il paese è privo di materie prime e dovrà, con la moneta svalutata, pagarle di più. Il costo dei fattori produttivi aumenterà e incorporandosi nei prodotti all’esportazione renderà la politica di svalutazione completamente vana. I benefici saranno solo di breve durata dopo di che aggraveranno la crisi ed allora Abe dovrà innescare un nuovo ciclo di espansione monetaria e di svalutazione peggiorando la spirale recessiva.

Se il ministro giapponese, non è in grado, come i suoi maestri di Harvard, di fare questi ragionamenti perché non conosce la logica economica, si sarebbe dovuto almeno ricordare della storia industriale del suo paese e trarne ispirazione per scelte un po’ più ragionate.

Il Giappone diventò la seconda potenza industriale con una moneta forte, non con una moneta debole allo stesso modo degli Stati Uniti ed la Germania dopo la seconda guerra mondiale. I giapponesi erano e sono ancora, un popolo di risparmiatori. Per questo crearono un enorme stock di capitale che permise al paese un corrispondente sviluppo in produttività, innovazione e in prodotti di qualità a basso costo per il mercato mondiale. Questo processo attirò dall’esterno ancora maggior capitale amplificando la produttività del lavoro e diminuendo ulteriormente i costi col risultato di intensificare la domanda di export. Ma c’era di più: i rendimenti sul capitale investito erano così alti e la pressione fiscale così bassa che i giapponesi erano incentivati a risparmiare e a creare sempre più capitale. Questo è sviluppo. Tutto il resto, svalutazioni, politiche fiscali e monetarie, è solo scorciatoia per l’abisso. Se fosse il contrario, il problema della povertà e delle crisi sarebbe risolto già da tempo.

Ma questo paradigma di sviluppo fu abbandonato dal Giappone a partire dall’ultima decade del secolo scorso, dopo che il famoso e potente MITI (Ministry of International Trade and Industry), insieme alla banca centrale (BOJ) lanciò nel paese le “politiche industriali” credendo di far meglio degli imprenditori. Per descrivere i danni delle politiche industriali (auspicate da molti economisti politici nostrani) ci vorrebbe un articolo a parte. Basti dire che il Giappone che è cresciuto fino agli anni 70 ad un tasso del 9.6% e fino al 1990 di oltre il 4% all’anno, si è ridotto a un misero 1% dopo aver adottato, appunto, politiche industriali e perenni stimoli monetari che lo hanno portato, dopo un ventennio di stagnazione ad avere i costi industriali più elevati del pianeta. Tali politiche hanno la stessa logica della svalutazione: avvantaggiano settori industriali a danno di altri provocando distorsioni produttive e disoccupazione per non parlare della colossale corruzione, vera piaga del paese, che è sempre associata all’interventismo statale. Le gigantesche spese in opere pubbliche di matrice keynesiana promosse in Giappone hanno contribuito a prosciugare lo stock di capitale della nazione perché tutti gli interventi sono stati direttamente e indirettamente finanziati dai risparmiatori che dopo essersi accollati gran parte del debito, oggi pari al 230% del PIL, il più alto dei paesi industrializzati, hanno pure perso il beneficio di una remunerazione decente del loro capitale. Il debito degli stati, per chi non lo avesse ancora capito, non crea mezzi di produzione ma li riduce facendo sprofondare i paesi nel buco nero della deflazione da cui ora il grande Abe pretende di uscirne con una… svalutazione!!

Non resta che aspettare le conseguenze. Inevitabili. Ducunt volentem fata, nolentem trahunt. Addio anche a te, Sol Levante.