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PLATONE

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“LA REPUBBLICA” di PLATONE (LibroVIII) “Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quante ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui; che i giovani pretendono gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi e questi, per non parere troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo né rispetto per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia”.

AUTONOMIA FISCALE IN SVIZZERA

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– Federazione, Cantoni, Comuni… Per capire meglio quali siano e come funzionino i rapporti in Svizzera tra i vari organismi che compongono lo Stato federale, soffermandoci in particolare sul Canton Ticino a noi così vicino per lingua, mentalità e – in un certo senso – economia, abbiamo interpellato il professor Eros Ratti, costituzionalista e autore del più completo manuale di Diritto elvetico dei Comuni, oltre che di diversi testi divulgativi di educazione civica per la scuola dell’obbligo. FEDERALISMO INTEGRALE «La nostra Federazione è composta da 23 cantoni, che sono Stati autonomi. In particolare, il Ticino si chiama, nella nuova Costituzione, “Repubblica e Cantone del Ticino”». Intenti chiari già a partire dal nome… «Già “Cantone” significava Stato autonomo, ma nella nuova Costituzione approvata tramite voto popolare si è voluto sottolineare come si tratti in effetti di una Repubblica sovrana e indipendente. Naturalmente entro i limiti stabiliti dalla Costituzione federale, che viene approvata anch’essa dal popolo». Quindi ogni Cantone è libero di darsi la propria Costituzione e le proprie leggi? «Esattamente, sempre entro i limiti della Costituzione federale che è comunque lo stesso popolo a darsi, approvandola direttamente con il proprio voto». Un percorso che nasce davvero dal basso… «Certo, perché è comunque il popolo che stabilisce che certe materie, per esempio i rapporti con gli Stati esteri, debbano essere delegati alla Federazione. Togliendo automaticamente questa competenza al proprio Cantone». Quindi la Federazione ha competenza solo su un numero limitato di materie? «Sì, in particolare la politica estera, i trasporti, le poste, i trattati internazionali, la libertà di commercio e altre competenze elencate in Costituzione federale». È l’esatto opposto di quanto avviene negli Stati centralisti, tra cui l’Italia, dove lo Stato si occupa di tutto, tranne ciò che delega, con un apposito elenco, alle Regioni amministrative… «Da noi, infatti, le competenze cantonali possono essere innanzitutto autonome, delegate dalla Costituzione e infine quelle residue, che non compaiono nell’elenco della Costituzione federale e che quindi spettano automaticamente al Cantone». Come sono divisi i poteri nello Stato federale? «Il governo si chiama Consiglio federale composto da sette membri eletti in questo caso non dal popolo ma dall’Assemblea federale, composta dalle due Camere, il Consiglio nazionale eletto dal popolo popolo proporzionalmente al numero degli abitanti e dal Consiglio degli Stati, anch’esso nominati dai cittadini ma sulla base territoriale dei singoli Cantoni e con legge maggioritaria. Quest’ultimo mette quindi sullo stesso piano politico i Cantoni piccoli e quelli estesi. In questo caso, per esempio, il Cantone di Appenzello, che ha 20-30.000 abitanti, ha due rappre-sentanti, tanti quanti il Cantone di Zurigo, con un milione di abitanti. Questo per evitare, siccome una Camera ha il diritto di veto sull’altra, che i Cantoni maggiori, già rappresentati proporzionalmente agli abitanti nel Consiglio nazionale, abbiano il sopravvento». Le due Camere, quindi, lavorano per proprio conto? «Tranne, appunto, per la nomina del Governo, i sette membri del Consiglio federale, e la nomina del presidente della Confederazione, carica simbolica, una specie di “primus inter pares” senza competenze particolari. Flavio Cotti, ticinese, quando è diventato presidente ricordava che la sua competenza era quella di entrare per primo dalla porta…». Il Governo, invece, ha un Premier? «No, ogni consigliere federale ha il suo dicastero, non c’è una figura come il presidente del Consiglio. Nell’elezione del Consiglio federale c’è comunque un accordo tacito, consuetudinario, chiamato “formula magica”, secondo cui nella nomina dei consiglieri si tiene conto di “una ragionevole ripartizione nel territorio”. E ha sempre funzionato egregiamente, offrendo rappresentanza sia alle diverse forze politiche, sia alle tre componenti francesi, tedesche e, anche se di fatto un po’ meno, ticinesi. Territori, lingue, minoranze, hanno così ciascuno la propria rappresentanza» . Un segno di civiltà, non c’è che dire… «Senz’altro, un segno di maturità. Guardo sempre con ammirazione il momento della nomina, perché con questo galateo si riesce comunque ad arginare le ingerenze dell’alta finanza e dei poteri forti». IL CANTONE, STATO SOVRANO Passiamo allora al Cantone. Sono costituiti tutti allo stesso modo oppure sono diversi tra loro, in quanto a organi e rappresentanze? «C’è qualche piccola differenza sulle denominazioni, ma tutti quanti sono dotati di potere legislativo, esecutivo e giudiziario come tutti gli Stati sovrani». Esiste quindi anche la giustizia cantonale? «Certamente. C’è la giustizia federale che si occupa di competenze specifiche, poi invece siamo organizzati con la nostra procura pubblica e con i tribunali cantonali nei vari gradi. E, da quello che ho potuto constatare quando svolgevo l’incarico di giudice di pace (eletto direttamente dai cittadini, ndr), che ha competenza anche su reati penali minori, il sistema funziona abbastanza bene». Il potere legislativo e l’esecutivo da chi sono rappresentati? «Il legislativo è il Gran Consiglio, con 90 membri e l’esecutivo, cioè il Governo, il Consiglio di Stato. In Ticino i consiglieri di Stato sono cinque. Governo e Parlamento sono entrambi eletti dal popolo ogni quattro anni, con sistema proporzionale. In alcuni Cantoni vi è il maggioritario. Ogni cantone si sceglie la propria legge elettorale». E le competenze del Cantone? «Sono indicate nella Costituzione cantonale». Non capita mai che vi siano conflitti con quelle federali? «Può capitare, nel caso di grandi progetti federali, ma in ogni caso è il Cantone che ha una certa forza. Difficilmente Berna impone una soluzione a scapito del Cantone, che sul suo territorio ha diritti considerevoli» . VICINO AL CITTADINO, IL COMUNE AUTONOMO Scendendo verso il basso, prima di arrivare al Comune, vi sono altri enti amministrativi? «In Ticino vi sono gli otto Distretti, che erano gli antichi “baliaggi” feudali, e i 38 circoli. Distretti e circoli hanno però solo lo scopo di delimitare i territori della giustizia civile. Sono entità minori di decentramento, le sedi di autogoverno sono soltanto Cantoni e Comuni». Qual è il ruolo del Comune? «È la cellula fondamentale della comunità elvetica. La vita delle persone si svolge nel Comune, Ente di Diritto pubblico anch’esso autonomo, questa volta nel rispetto di entrambe le Costituzioni, federale e cantonale». Lei ha partecipato direttamente alla stesura della nuova Costituzione ticinese dove si configura il ruolo del Comune… «In particolare con la clausola della competenza residua, all’articolo 16: “Il Comune (…) a livello locale svolge i compiti pubblici generali che la Legge non attribuisce né alla Confederazione né al Cantone”. Una proposta approvata dal Gran Consiglio, anche se solo per un voto. Infine, nella nuova Costituzione vi è an-che la garanzia dell’esistenza del Comune, che prima non era prevista». Federalismo proprio integrale, non c’è che dire. «Pur nella loro gradualità, Federazione, Cantone e Comune sono perfettamente sovrani. Anche il Comune, come il Cantone, è quindi caratterizzato con il proprio organo legislativo e con l’esecutivo». Quali sono? «Nei Comuni più piccoli c’è l’Assemblea diretta dei cittadini…» È addirittura un organo riconosciuto? «Certamente. E la legge che la disciplina non obbliga i Comuni a dotarsi del Consiglio comunale, ma dice testualmente che “i Comuni con più di 300 elettori possono istituire il Consiglio comunale”. Naturalmente lo fanno, ma anche i Comuni più grandi potrebbero convocare l’Assemblea diretta dei cittadini». Quanti sono oggi i Comuni in Ticino che la convocano regolarmente? «Ce ne sono un centinaio, e di solito si riuniscono nella sala delle Assemblee o nella palestra. E di solito sono un vero e proprio show, perché i cittadini intervengono e partecipano con molta convinzione». Un po’ come la landsgemeinde nella Svizzera interna… «Solo che in questo caso è un’assemblea addirittura a livello cantonale, come ad esempio avviene in Appenzello, e serve per eleggere direttamente il Consiglio di Stato, quindi il proprio governo. Un bellissimo Esempio di partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica». Nei Comuni maggiori, invece, i cittadini eleggono il Consiglio Comunale. E la “giunta”? «Anche. Qui si chiama Municipio, e viene eletto direttamente ogni quattro anni. Il sistema di gestione federale, cantonale e comunale è uguale. In tutti e tre gli ordinamenti vige inoltre il principio della collegialità, per cui i governi assumono le decisioni collegialmente e nei confronti dell’esterno vale la decisione presa dall’esecutivo nel suo insieme, non dai singoli membri. E chi è contrario a una decisione non può quindi portare la sua posizione all’esterno». Resta ancora il Sindaco. «Anch’egli eletto direttamente dai cittadini, 15 giorni dopo l’elezione del Municipio, con il sistema maggioritario. È un primus inter pares, con però alcune competenze specifiche, fra cui il rivestire la carica di ufficiale di Stato civile». Le parole del professor Ratti, costituzionalista in grado di esprimersi in modo chiaro e con concetti comprensibili a tutti, ci hanno aperto gli occhi. È bastato infatti già un primo incontro con la realtà elvetica e ticinese per comprendere come la frontiera che separa lo Stato italiano dalla Confederazione Elvetica segni il confine, più che tra due entità territoriali diverse, tra due concezioni opposte opposte e tra loro inconciliabili dei rapporti tra lo Stato con i suoi cittadini. Nella prima, quella italiana ereditata dal sistema centralista e giacobino piemontese, al centro della vita di tutti i giorni rimane lo Stato centrale, che si esprime attraverso le sue articolazioni e i suoi poteri che derivano sempre dalla propria legittimazione, e dove spesso i suoi funzionari si sentono suoi sacerdoti prima ancora che suoi servitori, o – meglio – prima ancora che servitori dei suoi cittadini. Nella struttura elvetica, come abbiamo visto, che nasce dalla libera adesione di comunità indipendenti e fiere di esserlo, la fonte di legittimazione di ogni potere è – al contrario – sempre il cittadino, responsabilizzato nella sua funzione di appartenente alla comunità. E il cittadino, infine, anche attraverso gli istituti della democrazia diretta, in primis il referendum, può sempre e comunque intervenire nelle decisioni che lo riguardano. E dare senso compiuto alla stessa parola “democrazia”.

Europa che vogliamo

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Club “L’ Imprenditore”
Via Canneto 7 Brescia tel. 030.3534531 – E-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Brescia, 17 giugno 2016.

Cari amici,

Le riflessioni svolte su un giornale provinciale da un ex senatore protagonista per molti anni della vita politica del nostro paese, in merito alla bocciatura irlandese dell’accordo di Nizza mi hanno lasciato stupefatto. Secondo l’esponente politico bresciano, infatti, la decisione emersa dal referendum sarebbe semplicemente il frutto dell’ignoranza e della cattiva informazione dei cittadini irlandesi.
Sono certamente convinto che il senatore sia persona colta e preparata, ma proprio per questo motivo non dovrebbe esprimere giudizi simili su un intero popolo che, in modo democratico, si è espresso in merito a questioni molto importanti per il suo futuro.
Questo episodio, però, è quanto mai rivelativo dell’attitudine con la quale i membri della classe politica (di oggi come di ieri) guardano al “popolo bue”, sempre da lodare quando li elegge ma puntualmente bacchettato sulle dita se “disturba il manovratore”.
E d’altra parte, perché mai i nostri governanti ci negano un referendum su queste stesse materie? Forse davvero ci considerano (come fa il senatore Pedini di fronte ai cittadini dell’Irlanda) tutti incolti ed incompetenti?
La mia opinione è che proprio su questi temi cruciali, destinati a condizionare pesantemente il nostro futuro e il nostro modo di vivere, sia del tutto sacrosanto e necessario chiedere direttamente ai cittadini il loro parere. Questo esigerebbe un ampio dibattito, con la presentazione dei “pro” e dei “contro”, e imporrebbe una maggiore consapevolezza sulle scelte che ora, con tanta leggerezza, stiamo assumendo.
Bisogna iniziare a domandarsi, infatti, se il centralismo europeo in fase di costruzione (con l’assommarsi di sempre nuovi poteri a Bruxelles) rappresenti davvero la soluzione di tutti i nostri mali. Bisogna iniziare a chiedersi, in altre parole, se affidando ad un governo europeo la gestione dell’economia del continente, il potere di regolamentare ogni cosa e il controllo sulla moneta si porranno davvero le premesse per migliorare la situazione o se invece, come pare più probabile, si stia aprendo la strada ad un potere lontano, fuori da ogni controllo e votato a giocare un ruolo sempre più attivo nelle aree calde del pianeta (coinvolgendoci in innumerevoli guerre “regionali”).
Indipendentemente da quella che può essere l’opinione di ognuno di noi sull’unificazione politica e centralista dell’Europa, quel che è importante sottolineare è che in molti altri Stati europei la materia è stata sottoposta a referendum. La classe politica si è sentita in dovere di far decidere in primo luogo al “popolo sovrano”.
In Italia le cose vanno molto diversamente. La nostra Costituzione, illiberale sotto molti aspetti, afferma in effetti che il cittadino non può esprimersi in via referendaria su questioni come i trattati internazionali ed il prelievo tributario, mentre proprio questi sono gli argomenti che a mio parere dovrebbero sempre e comunque affrontare il vaglio della maggioranza dei cittadini.
L’idea dei nostri uomini politici secondo cui i cittadini non capiscono o sono male informati (eccezion fatta quando li eleggono, ovviamente) è ridicola. In democrazia le opinioni si discutono e si contestano, ma solo per arrivare al momento in cui – una volta che il popolo si è espresso – ci si rassegna ad accettare quella che è stata la volontà dei più.
Questa è la vera democrazia.
Il problema è che i nuovi governanti dell’Europa di oggi sono così ossessionati dall’idea di controllarci e salvarci dalle nostre stesse cattive abitudini che non si fermano di fronte a nulla. Se la maggioranza di uno Stato decide che una decisione presa dall’élite politico-burocratica non va bene, allora gli elettori diventano subito ignoranti e male informati: e vengono rimandati a settembre. Solo i politici sono colti, saggi, anzi infallibili. Ma in realtà questo ceto di partitanti appartiene ad una nuova generazione di dittatori ideologici, gli Utopisti del Nuovo Ordine Mondiale, che punta ad unificare ogni Stato e guarda all’Europa come al primo passo verso la costruzione di un unico Stato mondiale, nel quale l’opinione pubblica non esisterà più o sarà comunque facilmente manipolabile da mass-media politicamente controllati.
L'ideale autenticamente liberale che noi europei dovremmo cercare di realizzare è quello di un’Europa senza barriere commerciali e culturali, che si preoccupasse solo di liberalizzare gli scambi, evitando quelle nuove leggi, quei nuovi regolamenti restrittivi e quelle nuove direttive spesso minuziose che limitano pesantemente le libertà dei cittadini. Non pensa il senatore che sia stata proprio questa crescente aggressione alle nostre libertà condotta dall’eurocrazia di Bruxelles ad avere aperto la strada al “no” dei liberi elettori irlandesi?

Giuseppe Quarto
Responsabile Club “L’imprenditore”

 

Uomini di libertà e uomini di potere

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di GUGLIELMO PIOMBINI

 

I produttori contro lo Stato - L’accusa agli Stati nazionali centralizzati di essere delle macchine mostruose che consumano in maniera insaziabile le ricchezze prodotte dalla società accomuna, in forme più o meno consapevoli, gli obiettivi politici dei movimenti libertari e dei movimenti indipendentisti. Lo Stato contro cui si ribellano però non è un’astrazione, ma è un sistema organizzato di interessi personali, costituito dalle persone in carne ed ossa che lo gestiscono: una vera e propria classe sociale che vive grazie al prelievo obbligatorio su coloro che lavorano nel settore privato.

Questa contrapposizione è particolarmente visibile in Italia, dove il peso fiscale complessivo sulle imprese raggiunto quasi il 70 per cento del reddito, e dove alcune regioni produttive come il Veneto e la Lombardia subiscono un trasferimento forzato di ricchezza che probabilmente non ha equivalenti al mondo. Solo in Italia, ha fatto notare recentemente Aldo Canovari, esiste una distinzione di rango così marcata tra chi lavora dentro e chi lavora fuori dal perimetro della pubblica amministrazione. Da una parte ci sono i privilegiati che occupano posti super retribuiti e per di più sicuri e garantiti in organismi pubblici centrali o territoriali di natura politica, giudiziaria, amministrativa. Sono queste le persone che nel corso degli ultimi decenni hanno edificato il debito pubblico attraverso sperperi e folli deficit. Dall’altra ci sono i tanti cittadini che producono effettivamente ricchezza e che operano nelle condizioni di rischio tipiche dell’economia: piccoli e medi imprenditori, artigiani, commercianti, agricoltori, autonomi, professionisti, e i milioni di individui che lavorano alle loro dipendenze.

La “cupola” al vertice della casta statale è costituita da circa 500mila/un milione di persone retribuite mediamente cinque volte di più rispetto agli altri paesi occidentali, con redditi e pensioni superiori dalle 10 alle 30 volte quelle di molti lavoratori privati. Queste stesse persone, inoltre, decidono quale debba essere la tassazione necessaria per conservare o accrescere i propri privilegi. Il meccanismo di cui costoro si servono per alimentare i propri stipendi è fondato su metodi fiscali estorsivi a danno dei lavoratori non garantiti (accertamenti induttivi fondati su semplici presunzioni, spesometro, redditometro, tassazione su redditi non conseguiti, solve et repete, ecc.): pratiche incivili e vessatorie sancite dalla legge e supinamente accettate da chi le subisce (Aldo Canovari, “Ghigliottiniamo l’alta burocrazia!”, Il Foglio, 28 febbraio 2014).

Per contrastare questo intollerabile forma di sfruttamento è fondamentale sviluppare una convincente teoria esplicativa dell’attuale fase storica della lotta fra le classi. A tal fine ripercorreremo una serie di contributi intellettuali, elaborati da studiosi di diverse epoche e di diverse nazionalità, che raccolti insieme costituiscono l’impalcatura di quella che si potrebbe definire “teoria liberale della lotta di classe”.

Da Sieyes ai libertarians- L’idea che la presenza dello Stato divida la società in due classi antagoniste si trova per la prima volta nelle polemiche degli scrittori rivoluzionari di fine Settecento contro l’antico regime. Nel suo famoso trattato Che cosa è il Terzo Stato?, scritto alla vigilia della rivoluzione francese, l’abate Emmanuel Sieyes contestò i privilegi legali delle classi che controllavano l’apparato statale. Il Primo e il Secondo Stato, cioè i nobili e il clero, non solo avevano il monopolio delle cariche pubbliche, ma erano esentati dalle imposte e mantenuti dalle tasse pagate dal Terzo Stato, il ceto sociale che costituiva il 98 per cento della popolazione francese e che esercitava tutte le funzioni produttive e commerciali essenziali per la società.

La teoria liberale della lotta di classe abbozzata da Sieyes venne approfondita dagli studiosi francesi dell’età della Restaurazione come l’economista Jean−Baptiste Say, con la sua potente critica della tassazione, e i cosiddetti “industrialisti” (Charles ComteCharles DunoyerAugustin ThierryAdolphe Blanqui), i quali elaborarono prima di Karl Marx una compiuta teoria della lotta di classe, applicandola a tutti gli eventi della storia passata. A differenza di Marx questi autori ritenevano che fosse il possesso degli apparati di governo, non la proprietà degli strumenti di produzione, che generasse lo sfruttamento e quindi la divisione della società in classi. Nel mondo, scrivevano gli industrialisti, esistono solo due nazioni: gli uomini di libertà e gli uomini di potere. Coloro che producono devono quindi organizzarsi per resistere quelli che amministrano. Il picco della perfezione si avrebbe se tutti lavorassero e nessuno governasse.

Un altro grande economista francese della stessa epoca, Frédéric Bastiat, analizzò in maniera brillante lo sfruttamento politico-burocratico definendolo “spogliazione”. La sua esistenza è un fatto onnipresente nella storia umana, empiricamente osservabile. I predatori si sono storicamente organizzati in Stati, hanno ratificato la loro spogliazione con la legge, e l’hanno magnificata con l’ideologia. Il compito degli economisti, secondo Bastiat, era quello di svelare i trucchi, gli inganni e gli espedienti che usano i predatori per giustificarsi agli occhi degli spogliati. Dietro ogni teoria economica sbagliata, infatti, si cela sempre un’estorsione, perché «per derubare il pubblico, occorre ingannarlo. Ingannarlo è convincerlo che viene derubato per il suo bene». Se la spogliazione non esistesse la società sarebbe perfetta. Ciò che separa l’ordine sociale dalla perfezione, concludeva Bastiat, è proprio lo sforzo costante dei suoi membri di vivere e crescere alle spese gli uni degli altri (Sofismi economici, 1845).

La teoria liberale della lotta di classe ha avuto la sua genesi in Francia, ma i suoi sviluppi più significativi si sono avuti nel mondo anglosassone. La polemica illuminista contro le monarchie assolute aveva infatti trovato fin da subito terreno fertile in America.Thomas Paine, i cui scritti infiammarono i coloni americani che si ribellarono per ragioni fiscali alla Corona inglese, spiegava che la società del suo tempo era composta da due classi di persone, coloro che pagavano le tasse e coloro che le ricevevano e vivevano di esse. Quando le imposte venivano portate all’eccesso si giungeva inevitabilmente alla discordia tra le due. Egli si considerava il campione della causa dei poveri, dei fabbricanti, dei mercanti, degli agricoltori e di tutti coloro su cui pesavano realmente gli oneri fiscali.

Si deve invece a John C. Calhoun, eminente pensatore e vicepresidente degli Stati Uniti dal 1825 al 1832, la fondamentale distinzione tra la classe dominante che beneficia della tassazione (i tax-consumers) e la classe dominata che paga le imposte (i tax-payers). La tassazione per Calhoun crea sempre dei rapporti di antagonismo fra queste due classi. Difatti, maggiori sono le tasse e le erogazioni, maggiore è il guadagno per gli uni e la perdita per gli altri, e viceversa. L’effetto di ogni aumento, quindi, è quello di far arricchire e rendere più potente una parte, e di impoverire e indebolire l’altra (Disquisizione sul governo, 1850).

Ai giorni nostri la teoria liberale della lotta di classe ha assunto una notevole rilevanza all’interno della teoria politica dei libertarians americani, in particolare nei saggi e nei romanzi di Ayn Rand incentrati sulla lotta titanica dei produttori creativi contro le forze burocratiche del male, e nelle opere degli anarco-capitalisti Murray N. Rothbard e Hans-Hermann Hoppe. Secondo i libertari il criterio per distinguere l’appartenenza alla classe sfruttatrice o alla classe sfruttata è di natura morale. I padroni e i beneficiari dello Stato, infatti, sono gli unici individui della società che ottengono le loro entrate non con la produzione e lo scambio pacifico e volontario, ma con la costrizione, cioè minacciando l’esercizio della violenza fisica (l’arresto e la prigione) contro gli altri membri della società.

Vilfredo Pareto e l’analisi della spogliazione - Anche la cultura italiana ha dato importanti contributi alla costruzione di una teoria liberale della lotta di classe. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 l’economista e sociologo Vilfredo Pareto utilizzò il concetto di “spogliazione” elaborato da Bastiat per mettere in luce la sistematica attività di sfruttamento posta in essere dagli uomini che controllano lo Stato. In ogni luogo, scrive Pareto, le classi al potere hanno un solo pensiero, i propri interessi personali, e usano il governo per soddisfarli. Ogni classe, infatti, si sforza d’impossessarsi del governo per farne una macchina con cui spogliare le altre.

Il problema, continua Pareto, nasce dal fatto che depredare gli altri per mezzo del governo costituisce un’alternativa molto più facile e attraente del duro lavoro di produzione della ricchezza: «La produzione diretta dei beni economici è spesso molto penosa; l’appropriazione di tali beni, prodotti da altri, è talora assai facile. Questa facilità è stata grandemente accresciuta da quando si è pensato di effettuare la spogliazione non contro la legge, ma a mezzo della legge … Andare a deporre una scheda di voto è cosa assai agevole, e se, con questo mezzo, ci si può procurare il vitto e l’alloggio, tutti e specialmente gli inadatti, gli incapaci, i pigri si affretteranno ad adottarlo» (I sistemi socialisti, 1902).

Poco importa che la classe dominante sia un’oligarchia o una democrazia. Si può dire soltanto che quanto più questa classe è numerosa, tanto più intensi sono i mali che risultano dalla sua dominazione, perché una classe numerosa consuma una quantità di ricchezza maggiore di quella che consuma una classe più circoscritta. Il reclutamento di una folta classe di funzionari, osserva Pareto, riduce in parecchi paesi il numero degli individui che si occupano della produzione della ricchezza. L’eccesso di personale statale comporta quindi un doppio danno alla società: lucro cessante (minor produzione) e danno emergente (spese aggiuntive): «Una delle cause principali della ricchezza dell’Inghilterra e della Svizzera sta nel fatto che, quanto meno fino a ora, la classe degli uomini politici e quella dei funzionari sono ivi assai limitate ed in tal modo non distolgono dalla produzione della ricchezza la maggior parte delle forze vive del paese. Cause opposte operano nel senso di aumentare la miseria in Spagna e in Italia» (Corso di economia politica, 1897).

Purtroppo «quel che limita la spogliazione è di rado la resistenza degli spogliati: sono piuttosto le perdite che essa infligge a tutto il paese e che ricadono in parte sugli spogliatori. In tal modo costoro possono finir col perdere più di quanto guadagnano dall’operazione. Allora se ne astengono, se sono abbastanza intelligenti da avvertir bene le conseguenze che essa avrà. Ma, se manca loro questo buon senso, il paese marcerà sempre di più verso la rovina, come lo si è osservato per certe repubbliche dell’America del Sud, per il Portogallo o la Grecia moderna» (Corso di economia politica, 1897). Parole di oltre un secolo fa che sembrano scritte oggi.

Luigi De Marchi e la rivolta dei produttori - Nell’Italia del XX secolo la vittoria quasi completa delle ideologie stataliste farà cadere nell’oblio la teoria liberale della lotta di classe per molti decenni. Bisognerà aspettare la metà degli anni Settanta perché uno studioso fuori dal coro, Luigi De Marchi, la riproponga nei suoi scritti di psicologia sociale: «I nostri professoroni e professorini al merito catto-marxista continuano imperturbabili a presentarci la classe imprenditoriale come la matrice d’ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentre è da tempo evidente per chiunque sappia guardare la realtà contemporanea con un minimo d’indipendenza critica, che la vera classe parassitaria e sfruttatrice è, nel mondo intero, e da lungo tempo ormai, la classe burocratica» (Psicopolitica, 1975).

Ci fu un periodo, all’inizio degli anni Novanta, in cui sembrava che la Lega Nord avesse, per la prima volta nella storia politica d’Italia, impugnato il vessillo della rivolta dei produttori contro la classe burocratica e i suoi padrini/padroni: i partiti statalisti. Quella dei produttori, spiega De Marchi, è la rivolta contro chi pretende di vivere nell’ozio e nella sicurezza alle spalle di chi vive nella fatica e nell’insicurezza. Chi vive davvero del proprio lavoro e, pena la disoccupazione o il fallimento, deve saper produrre beni e servizi apprezzati dall’utenza e dai consumatori, non intende più essere rapinato e vessato da una classe parassitaria e sfruttatrice che si autodefinisce, con la benedizione delle sinistre e delle altre forze stataliste, tutrice della gente debole e del pubblico interesse.

Nella prospettiva psicopolitica di De Marchi il Burocrate e i Produttore rappresentano due modelli opposti di personalità. Per il Burocrate, infatti, «il reddito non è il frutto di un lavoro richiesto e, tanto meno, apprezzato da una platea di utenti o consumatori o clienti, che possono rivolgersi altrove se non vengono accontentati. L’attività del burocrate, quando esiste, è di solito un rituale inutile e defatigante imposto a un’utenza coatta in regime di monopolio. E il redito non ha nessun rapporto con la qualità del lavoro prestato, ma è solo il magico dono di un superiore o di un Ente altrettanto inutile del suo dipendente. Nell’universo infantile dei burocrati il successo dipende solo dal favore dei potenti. Nel mondo dei produttori, ognuno è fabbro della sua fortuna. La personalità del Burocrate è strutturalmente incline al conformismo e al formalismo. Quella del Produttore è fondamentalmente autonoma, pragmatica, realistica» (Perché la Lega. La rivolta dei ceti produttivi nell’Italia e nel mondo, 1993).

Gianfranco Miglio e la teoria del parassitismo politico - Un’importante esposizione scientifica della teoria liberale della lotta di classe si trova negli scritti di Gianfranco Miglio risalenti agli anni del suo impegno politico. Miglio introduce infatti la contrapposizione irriducibile tra l’obbligazione contrattuale e l’obbligazione politica. La prima nasce dallo scambio volontario tra due soggetti posti su un piano di parità, la seconda è invece l’effetto dalla coercizione politica esercitata da alcuni soggetti che si fanno forti dell’autorità dello Stato. L’obbligazione politica, spiega Miglio, è la fonte della “rendita politica”, cioè dei vantaggi parassitari di alcuni gruppi privilegiati a danno di altri.

Lo Stato centralizzato contemporaneo cerca di seminare nebbie attorno a questo suo operato, camuffando i trasferimenti da alcuni cittadini ad altri mediante strumenti sempre più fantasiosi ed efficaci, come l’inflazione, il debito pubblico, le imposte indirette, le tasse occulte. La verità, spiega Miglio, è che «in ogni momento storico gli individui che fanno parte di una comunità politica si dividono naturalmente in produttori e consumatori di tasse. Quando i consumatori di tasse prendono il sopravvento tramite le assemblee politiche e considerano i produttori i propri schiavi fiscali, la struttura parassitaria mette in crisi tutta la comunità politica. A quel punto o si riforma totalmente il sistema, o ci si rassegna alla rivoluzione che, per definizione, non è pilotabile» (Federalismo e secessione, 1997).

Miglio interpreta la contrapposizione territoriale tra le diverse aree del paese come un riflesso dell’antagonismo tra classi produttrici e parassitarie: «Chi lavora, produce e paga imposte si è accorto finalmente di essere il maltrattato, eterno e inutile di una legione di “parassiti” e ha incominciato a cercare un nuovo difensore politico. Intendiamoci: considerata l’inclinazione congenita dell’homo sapiens a vivere alle spalle degli altri, in ogni convivenza ci sono sempre degli sfruttati più o meno ignari e degli sfruttatori più o meno consapevoli. Il gioco però dura soltanto finché i primi non si accorgono della loro condizione; allora l’incantesimo si rompe: i tributari si ribellano e cessa la pacchia per i parassiti. Ma proprio questi ultimi non si rassegnano facilmente a perdere i loro privilegi e combattono duramente per mantenere il “sistema”» (Per un’Italia Federale, 1990).

Proprio come Frédéric Bastiat, al quale la morte prematura impedì di portare a termine un trattato sulla spogliazione, anche il professore comasco negli ultimi anni della sua vita aveva espresso il desiderio di scrivere un testo di “teoria pura del parassitismo”. «Il capitolo rimasto da scrivere della politologia moderna – disse al suo allievo Alessandro Vitale ­– è quello dei ceti parassitari, sui quali non esiste ancora letteratura; soprattutto non vengono approfonditi in maniera sistematica i rapporti parassitari entro le comunità politiche. Questo è quello che dovrebbe essere studiato a fondo». Questa opera avrebbe dato un contributo inestimabile alla scienza della politica, e sarebbe stato il suggello della sua carriera intellettuale.

 

Si può anche senza tasse

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di GUGLIELMO PIOMBINI

Molti grandi pensatori liberali dell’Otto-Novecento di scuola francese e italiana avevano messo al centro delle loro riflessioni sociologiche il concetto di spogliazione. Jean-Baptiste Say, Frédéric Bastiat, Vilfredo Pareto o Maffeo Pantaleoni avevano osservato che in ogni società gli individui hanno a disposizione solo due modi per procurarsi le ricchezze che desiderano: lo produzione e lo scambio volontario, oppure la spogliazione. In questa seconda ipotesi si aspetta che qualcuno abbia prodotto qualcosa, per poi sottrarglielo con la forza o con l’inganno. La spogliazione commessa da una persona a danno di un’altra viene di regola condannata dalla legge e dalla morale; al contrario, la spogliazione esercitata da coloro che controllano l’apparato coercitivo dello Stato assume un carattere legale e sistematico, e prende il nome di tassazione.

Questa forma di spogliazione su vasta scala genera spesso oppressione, parassitismo, stagnazione economica, malumori e rivolte. Nel periodo in cui era presidente del consiglio, Mario Monti colse involontariamente questo dato di fatto quando affermò che «sotto il profilo del fisco siamo in uno stato di guerra e non è possibile avere una pace sociale, una pace tra cittadini e Stato, se non viene ruvidamente contrastato il fenomeno dell’evasione». L’azione fiscale dello Stato, infatti, crea sempre una situazione di conflitto permanente all’interno della società. Ogni giorno, ininterrottamente e senza sosta, un esercito di consumatori di tasse (politici, burocrati e militari) si attiva freneticamente per controllare, minacciare, braccare, scovare, arrestare, punire ed estorcere fondi ai produttori di tasse, cioè a tutti quegli individui pacifici che svolgono la propria attività nel settore privato dell’economia.

L’introduzione di queste dosi massicce di coercizione nella società rappresenta una vera e vera e propria barbarie, che corrompe e avvelena l’intera vita sociale e dà il segno di quanto siano arretrati gli attuali nostri sistemi politici. Di recente uno dei più noti filosofi tedeschi, Peter Sloterdijk, nel libro La mano che prende e la mano che dà ha denunciato con forza l’inciviltà dei sistemi politici fondati sulla costrizione fiscale, proponendo di passare a forme volontarie di tassazione: l’unico modo, a suo parere, per moralizzare e rivitalizzare le moderne democrazie, ormai trascinate alla bancarotta da sistemi fiscali sempre più esosi e polizieschi, che schiacciano le libertà individuali e umiliano i contribuenti.

I sostenitori dell’imposizione fiscale replicano a questo genere di critiche richiamando la teoria dei beni pubblici, secondo cui solo lo Stato può produrre quei beni di utilità collettiva, come la difesa, la protezione, la giustizia, le strade o l’assistenza ai bisognosi, che gli individui non sarebbero in grado di produrre attraverso le interazioni volontarie nel mercato. In verità questa teoria è contestabile sul piano teorico e storico, dato che tutti i cosiddetti “beni pubblici” sono stati prodotti efficientemente dal settore privato prima che lo stato se ne attribuisse il monopolio legale.

In ogni caso sarebbe meglio chiedersi se un’astrazione teorica elaborata a tavolino dagli economisti rappresenti una ragione sufficiente a giustificare l’inevitabile carica di violenza sugli individui che da sempre caratterizza tutti i sistemi fiscali. Che cos’è più importante? Che la comunità possa usufruire di un determinato “bene pubblico” (la cui utilità viene spesso stabilita unilateralmente dalla classe politica, senza neanche interpellare i diretti interessati) o che abbia fine, o quantomeno si riduca, quel mare di controlli asfissianti, costrizioni, intimidazioni, irreggimentazioni, confische e persecuzioni fiscali, di cui la storia è piena? Dove sta scritto che il primo sia sempre un bene superiore al secondo?

A dispetto della teoria dei beni pubblici, anche oggi esistono numerosi esempi di realtà basate sulla contribuzione volontaria, come le città private largamente diffuse negli Stati Uniti. Queste gated communities sono dei quartieri urbani o delle vere e proprie cittadine organizzate su base condominiale che forniscono contrattualmente ai residenti tutti i servizi pubblici di cui necessitano: guardie private per la sicurezza, strade, nettezza urbana, scuole, ospedali.

All’interno di queste realtà il cittadino è trattato come un cliente, non come un soggetto passivo da ingiuriare, minacciare e gabellare a piacimento. Qui non esistono corpi permanenti di burocrati e finanzieri dotati di penetranti poteri, spesso intrusivi nella vita privata, alla continua ricerca di sudditi da spremere. Un sistema fondato sulla “tassazione” volontaria sarebbe quindi più umano ed efficace di quanto possano mai essere le attuali procedure fiscali obbligatorie, così ottuse, dissipatrici e soggette a continui abusi.

spesometro

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Preghiera laica in difesa del contribuente

Oggi, sotto i nomi di "redditometro" e "spesometro", è in atto una massiccia aggressione alla proprietà privata. Ci viene detto "chi non ha niente da nascondere non ha niente da temere", come dicevano la Gestapo e la polizia sovietica. E intanto...

di Marco Bassani

Quando abolirono il segreto bancario non dissi parola. Avevo un rosso di un paio di milioni di lire sul conto, la cosa riguardava come sempre i ricchi evasori.

Quando il mio conto diventò trasparente per tutti i funzionari dello Stato, mi dissi che la cosa non mi poteva toccare, era un problema per le partite Iva, tutti ricchi evasori.

Quando mi impedirono di ritirare o depositare contanti dal mio stesso conto mi venne da sorridere: chi li aveva mai visti cinquemila euri? La cosa rendeva la vita difficile ai ricchi evasori.

Quando incominciarono a indagare tutti i flussi di danaro dall’estero mi dissi che era ora che andassero a scovare questi soldi nel Lichtenstein, sui conti dei ricchi evasori.

Quando incominciarono a controllare le spese di tutti, stavo per allarmarmi, ma tirai subito un sospiro di sollievo: chi poteva spendere tremilaseicento euri in un colpo solo? Ovvio, solo i ricchi evasori.

Quando mi recai in banca e non trovai più un euro sul conto, quando provai a usare la mia plastica e non l’accettava più nessuno capii al fine di essere anch’io un ricco evasore.

Ed ebbi pietà del mio silenzio complice, da lavoratore dipendente, naturale alleato del sistema. Ma ormai non c’era più nessuno che avesse i soldi per poter parlare.

Nessuno si senta offeso se traggo ispirazione da un pezzo famoso che parla del massimo assalto dello Stato alla vita (la poesia Prima vennero sull’ignavia di chi assisteva immobile alle purghe naziste), per dirvi del mio sdegno per la più grande aggressione oggi in corso alla proprietà (col linguaggio di chi la sta perpetrando: “spesometro” e “redditometro“). So bene che la vita conta di più. Il tutto però accade, proprio come allora, senza un lamento, senza un grido levato a vincere d’improvviso una legge. La via della schiavitù è veramente molto più in discesa di quanto avessimo mai creduto. O forse lo sapevamo, ma confidavamo nel buon cuore dei governanti … Peccato che poi mi sintonizzo su Radio Stato 24 e sento lo slogan dipietrista ripetuto cento volte: «Se ci comportiamo bene non abbiamo nulla da temere». «Tranquilli, tutto documentato, tracciato. Niente da temere». Il totalitarismo dolce e i suoi corifei non inventano proprio nulla. Quelli della Gestapo rassicuravano: «Se non avete cospirato contro il Volk non dovete temere nulla». O anche «se siete battezzati, portateci il certificato e non avrete nulla da temere». Quando arrivavano i comunisti a massacrare i kulaki entravano nei villaggi rassicurando tutti: «Chi non ha nascosto derrate alimentari non ha nulla da temere».

Unica consolazione odierna: non attentano direttamente alla nostra vita, finiranno solo per ridurci in povertà. Presto torneremo alla pastorizia e da un campo all’altro, fra un belato e un muggito sentiremo – attraverso una piccola radio a pile – i Barisoni prendersela con gli evasori e i Paragone colBilderberg, con Renzie in sottofondo a prometterci 4 euro al mese, pure agli incapienti (saranno quelli con meno di tre capre).